London Boulevard
Un piccolo criminale londinese, dopo un periodo di reclusione trascorso in prigione, cerca di cambiare vita e trova lavoro come maggiordomo di una ricca, quanto solitaria, attrice. La donna ripaga la fedeltà dell'assistente con soldi, belle auto e sesso... ma il violento passato dell'uomo purtroppo riemerge.
Quando si hanno a disposizione Colin Farrell, Keira Knightley e Ray Winstone, e una sceneggiatura scritta da William Monahan, premio Oscar per “The Departed”,
quante possibilità ci sono che le cose possano andare storte? Non
molte, ci direbbe il buon senso. Eppure, per realizzare un buon piatto
non basta avere tutti gli ingredienti, bisogna anche saper cucinare.
Fuor di metafora, è quello che è più o meno accaduto con questo “London Boulevard”,
opera prima di Monahan anche in veste di regista. Un film che, come
spesso accade ultimamente, arriva da noi con un discreto ritardo (in
Inghilterra è uscito a novembre) a riempire le poche sale che rimarranno
in attività nei mesi estivi. Eppure, in questo caso, il nostro
consiglio è quello di inforcare la bici e farsi un bel giro sotto il
sole di giugno.
Perché “London Boulevard”, e conviene dirlo senza mezzi termini, è un disastro.
Un film così brutto che davvero spinge a chiedersi come sia potuto
accadere. La premessa, tutto sommato, è anche interessante: Farrell è Mitchel,
un criminale appena rilasciato dal carcere, che sembra non avere la
minima intenzione di tornare alla sua vecchia vita. Il suo primo errore,
però, è quello di accettare un appartamento “in omaggio” dal suo amico Billy (Ben Chaplin), che lavora come strozzino per un potente boss malavitoso, Rob Gant (Winstone), il quale vorrebbe Mitchel nella sua gang. Ma lui nel
frattempo ha accettato di lavorare come guardia del corpo per una
reclusa star del cinema, Charlotte (Knightley), ed è indeciso su che strada prendere.
Un po' come Monahan, che alterna toni seriosi e un discreto ricorso alla
violenza a parti più grottesche che tentano di strappare qualche
sorriso risultando solo patetiche. L'esempio più lampante sono le scene
in cui Farrell divide lo schermo con David Thewlis,
nei panni del manager di Charlotte: non si capisce davvero cosa questo
personaggio significhi nell'economia generale del film, e anche il suo
coinvolgimento nella parte finale suona forzato e incoerente. La trama è
farraginosa a dir poco: troppe sono le sottotrame imbastite e mai
concluse a dovere, su tutte la vicenda di un senza tetto amico di
Mitchel e la storia d'amore tra la sorella del protagonista e un medico
indiano. Più grave ancora, non si comprendono mai pienamente le motivazioni che stanno dietro alle azioni dei personaggi: nessuno ha un vero arco narrativo,
tutti ne escono come delle marionette mosse dal regista per ottenere
l'effetto necessario a portare avanti la scena. Ne risulta un film che
vive di siparietti slegati tra loro, dove non ci si affeziona mai a
nessuno.
La prima mezzora tenta invano di mantenere un ritmo serrato, adottando
uno stile fatto di ellissi, di rapidi accostamenti tra linee narrative
parallele che, almeno inizialmente, sembra voluto. Ma poi questa spinta si esaurisce e la pellicola si trascina per il resto della sua durata,
tra una patinata e fredda storia d'amore – tra Mitchel e Charlotte – e
una serie infinita di scenette in cui Gant cerca di convincere Mitchel a
lavorare per lui, ma finisce puntualmente preso a pesci in faccia. Alla
quarta volta che la cosa si ripete, l'istinto di lasciare la sala è
forte. Dispiace vedere sprecato un ottimo cast – che comprende anche Stephen Graham, Ophelia Lovibond e Anna Friel – in un film così pigro e maldestro. La consolazione è che avremo altre occasioni per vederli al lavoro in pellicole migliori.
di Marco Triolo