

Il cecchino

Il capitano Mattei sta per arrestare una famigerata banda di rapinatori di banche, quando un cecchino appostato sul tetto di un edificio spara contro i poliziotti per permettere ai suoi complici di fuggire. In seguito al grave ferimento di uno di loro, i rapinatori si ritrovano costretti a cambiare i propri piani, rifugiandosi presso lo studio di un medico e rimandando in questo modo la spartizione della refurtiva. Mentre il capitano organizza una feroce caccia all'uomo, per ognuno dei criminali inizia la discesa all'inferno.

Una panoramica aerea di Parigi ci introduce a Il cecchino (Le guetteur), il nuovo film di Michele Placido che il regista pugliese ha realizzato in Francia tramite una
co-produzione italo-franco-belga. L'ambizione di raccontare un moderno
polar non manca, ma Placido cade vittima di una sceneggiatura a dir poco
squilibrata e improbabile.
La trama: il commissario di polizia Mattei (Daniel Auteuil) dà la caccia a un cecchino, Vincent Kaminski (il regista de I fiumi di porpora Mathieu Kassovitz),
colpevole di aver ferito diversi suoi uomini per coprire la fuga di una
banda di rapinatori. Ma nel frattempo la banda ha problemi tutti suoi:
un medico della mala (Olivier Gourmet) con un passato oscuro ha messo gli occhi sul bottino.
Entrati in sala ci aspettavamo un film ambientato sui tetti di Parigi,
tra inseguimenti spericolati a piedi e sequenze cariche di tensione in
cui Auteuil avrebbe fatto da bersaglio mobile per le strade della
metropoli francese. Il cecchino, invece, ci porta su territori meno
battuti e almeno in questo tenta qualcosa di interessante. Il problema è
che per amore di noir e per voler essere il più cupo e imprevedibile
possibile, lo script deraglia totalmente nella seconda metà,
perdendo più volte il filo del discorso, introducendo sottotrame
attaccate con la colla e lasciandosi totalmente andare alle incongruenze
narrative.
Un vero peccato, perché invece Placido fa il suo sporco lavoro, con una capacità di sintesi registica a cui da sempre aspira, a cui si è avvicinato con il pur buono Vallanzasca,
e a cui sembra finalmente approdato. Merito anche della professionalità
d'Oltralpe, il lavoro sul sonoro, sul montaggio – tutte cose che da noi
fanno in qualche modo ma che regalano tanto a un film in termini di
spettacolo. La fotografia di Arnaldo Catinari, d'altro canto, convince
meno nel suo tentativo di scimmiottare i toni cupi virati al blu che già
si sono visti in analoghi noir francesi moderni come i sopravvalutati 36 Quai des Orfèvres e L'ultima missione di Olivier Marchal. Sì è un polar, è disperato e pessimista: lo abbiamo capito anche senza la fotografia buia.
Di Marco Triolo