Con un’operazione che denota una
sorprendente intelligenza, il regista è tornato a caratterizzare il personaggio
alle sue origini, prima cioè che Rocky diventasse l’eroe palestrato e
propagandista che il terzo e quarto episodio lo avevano reso negli anni ’80.
Adesso è tornato nel suo vecchio e fatiscente quartiere, lavora nel suo piccolo
ristorante, e soprattutto vive attaccato ai dolorosi ricordi di un tempo: la
gloria del ring, le urla della folla, ma soprattutto il ricordo della sua
Adriana, scomparsa da tempo.
Citando un’affermazione del mio collega Mauro
Donzelli, Balboa è diventato una figura patetica, intesa nel senso positivo del
termine: ci troviamo di fronte infatti ad un personaggio immerso nel
crepuscolo, che sta concludendo la propria esistenza e sta facendo i conti con
il mito che un tempo ha rappresentato. Per almeno due terzi dunque “Rocky
Balboa” si muove come un melodramma umano scritto e realizzato con una
sensibilità che sinceramente da Stallone non ci saremmo più aspettati. Non
stiamo di certo parlando di un capolavoro, neppure di un lungometraggio
pienamente riuscito, ma di un’opera sincera ed abbastanza lucida nel sapere
cosa vuole raccontare. Risulta evidente che l’attore/regista/sceneggiatore ha
voluto in qualche modo chiudere i conti con la sua un tempo splendida creatura
tornando a raccontarla per quello che è, e smentendo in qualche modo i
sensazionalisti ed il “machismo” che l’aveva trasformata in qualcosa di
estraneo alla sua natura. Un ritorno dunque allo spirito ed alle atmosfere dei
primi due episodi, scelta che non può non essere applaudita.


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Rocky Balboa
Rocky è tornato nel suo vecchio e fatiscente quartiere, lavora nel suo piccolo ristorante e vive attaccato ai dolorosi ricordi di un tempo: la gloria del ring, le urla della folla, ma soprattutto il ricordo della sua Adriana, scomparsa da tempo

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani