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Macchine mortali, la recensione del finimondo in salsa steampunk prodotto da Peter Jackson

Dietro la macchina da presa il mago degli effetti speciali Christian Rivers. Catastrofe assicurata

Jackson

13.12.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane
Pandemonio steampunk. La Terra massacrata, le città che sono diventate enormi macchine predatrici. Londra “ingerisce” le più piccole (un effetto Brexit al contrario), sfida la resistenza orientale (una sorta di guerra “commerciale” con Cina e dintorni), impone il suo pensiero (false promesse, ricerca dell’omologazione, intransigenza verso il diverso. Forse un rinnovato "fascismo"?). E la salvezza sembra arrivare dal secondo pezzo di una “chiavetta”, su cui troneggia la scritta U.S.A. (saranno gli americani a salvare il capitalismo al collasso?). Un futuro distopico, o forse siamo nel presente? Le analogie col nostro tempo sono molte, ma in Macchine mortali i buoni propositi collassano sotto i colpi di cannoni quantistici e “trazionisti” squilibrati.

Scarsa profondità di campo, bulimia di effetti speciali, uno spettacolone formato teenager. Spirito manicheo: buoni e cattivi ben definiti, senza possibilità di errore. L’unico personaggio davvero interessante è un umanoide fatto di metallo. Programmato per distruggere (un Terminator venuto da lontano), dimostra di avere un cuore più grande di tanti “eroi” in carne e ossa.



Ma la sua vicenda resta sullo sfondo, viene trattata come una sottotrama abbozzata, poco omogenea con l’ipertrofia esplosiva di Macchine mortali. Incredibile pensare che la mente dell’operazione sia Peter Jackson. Produttore, sceneggiatore (con Philippa Boyens e Fran Walsh), all’inizio sembrava che dovesse esserci lui dietro la macchina da presa. Poi ha realizzato alcune sequenze come seconda unità, e lo scettro è passato a Christian Rivers, suo pupillo e mago della potenza visiva ad alto budget.

Il suo “tocco” lo si riconosce già dai primi dieci minuti. Ingranaggi che mutano, cataclismi a cascata, inseguimenti a tutta velocità. Con una colonna sonora a tutto volume, caotica, esagerata, sempre oltre il limite. L’allievo non supera il maestro. Propone un cinema orgogliosamente compatto, che neanche per un attimo acquista la consapevolezza di essere quasi una caricatura. È figlio dei duelli di Star Wars, della straordinaria follia di Mad Max, dei manieri semoventi de Il castello errante di Howl.

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Ma in Macchine mortali (per restare su Peter Jackson) manca l’animo romantico di King Kong, l’epica trattenuta de Il Signore degli Anelli, l’imponenza di Amabili resti, l’impegno di They Shall Not Grow Old. Così rimangono questi giganti di ferro, un po’ Transformers, un po’ simbolo di un mondo che sta implodendo. Bulloni, cingoli, cavi e niente di più.

La sola intuizione interessante è che sia il vintage a nutrire i progetti “stellari” dei cattivi. Servono oggetti del passato per alimentare l’energia delle nuove armi. Mentre l’azione prende il sopravvento e anche la pazienza viene messa alla prova, in una durata fin troppo generosa. Primo di una quadrilogia, tratta dai romanzi di Philip Reeve. Seguito da: Freya delle lande di ghiaccio, Infernal Devices e A Darking Plain.

Macchine mortali è nelle sale dal 13 dicembre, distribuito da Universal Pictures