Un cinema eterno, un numero di magia che attraversa i decenni. Ancora una volta l’illusione, la verità immaginaria, la realtà ricreata da un grande maestro. Che cosa stiamo guardando? Un film postumo, l’ultima opera di Orson Welles… Ma è molto di più: forse The Other Side of The Wind rappresenta il trionfo della volontà, un’impresa impossibile che si materializza. È un sogno, è il dono di un gruppo di amici che ha sfidato le regole imposte dall’industria. Ma andiamo per ordine.
La produzione inizia nel 1970, a cavallo tra i tempi d’oro e la New Hollywood. Il budget viene ampiamente superato, le riprese sembrano non finire mai. Si arriva a più di cento ore di girato, quarantacinque minuti montati, e forse neanche Welles sa come andare avanti con i mezzi dell’epoca.
“Se mi dovesse succedere qualcosa finiscilo tu”, dice a Peter Bogdanovich, quasi come se la maga dei tarocchi de L’infernale Quinlan gli avesse predetto il futuro. Welles muore, mancano i soldi per continuare. E il progetto viene terminato grazie a Netflix quarantotto anni dopo: l’ultimo capitolo di un’odissea incredibile. Welles continua a vincere ribaltando ogni pronostico, e regala capolavori anche dall’aldilà. Alcuni si interrogano sulla paternità di The Other Side of The Wind. Ma è davvero di Welles? O è frutto della tenacia di Bogdanovich e del talento del montatore Lee “Bob” Murawski? La risposta ce la dà Charles Foster Kane in Quarto potere: “Lei si preoccupa di quello che pensano gli altri? Su questo argomento posso illuminarla, io sono un’autorità su come far pensare la gente”. Nessun dubbio quindi.
Bogdanovich (da produttore esecutivo e interprete) mette in piedi l’ultimo spettacolo del Grande Illusionista. Le immagini cambiano formato, si colorano per poi tornare al bianco e nero. Battute grottesche si mescolano ai tormenti dei protagonisti, i sorrisi lasciano il passo ai litigi, alle incompatibilità. Al centro un uomo di potere, un “Falstaff” tornato dal suo esilio in Europa, un “Macbeth” prossimo alla follia, un “Otello” traditore. Il suo nome è Jake Hannaford, uno degli ultimi mostri sacri di Hollywood.
Viene organizzata una festa in suo onore: i giornalisti sono ovunque, tutto è documentato. Il party si trasforma in una sorta di processo kafkiano. La colpa di Hannaford? Nessuna. O forse quella di amare la macchina da presa, di essere attratto dal suo divo. Ha il volto di John Huston, ma in realtà stiamo guardando Orson Welles stesso, intrappolato in un The Dead – Gente di Dublino senza neve.
I sentimenti, le storie che si sovrappongono, e poi spazio al “metacinema”, al grande schermo che ci porta verso un altro lungometraggio. Viene proiettato l’ultimo lavoro di Hannaford, con un aguzzo utilizzo dell’ironia. Due giovani si rincorrono, si desiderano, si prendono e si lasciano sfidando i canoni del senso comune. Le trame si attorcigliano, ci si perde per poi ritrovarsi, come ne La signora di Shangai. È un gioco di specchi, un trompe-l'œil, un 8½, un’altissima riflessione sulla settima arte. Il testamento di un gigante, l’immortalità del suo genio. E che gran bel titolo L’altra faccia del vento! (disponibile su Netflix).
La produzione inizia nel 1970, a cavallo tra i tempi d’oro e la New Hollywood. Il budget viene ampiamente superato, le riprese sembrano non finire mai. Si arriva a più di cento ore di girato, quarantacinque minuti montati, e forse neanche Welles sa come andare avanti con i mezzi dell’epoca.
“Se mi dovesse succedere qualcosa finiscilo tu”, dice a Peter Bogdanovich, quasi come se la maga dei tarocchi de L’infernale Quinlan gli avesse predetto il futuro. Welles muore, mancano i soldi per continuare. E il progetto viene terminato grazie a Netflix quarantotto anni dopo: l’ultimo capitolo di un’odissea incredibile. Welles continua a vincere ribaltando ogni pronostico, e regala capolavori anche dall’aldilà. Alcuni si interrogano sulla paternità di The Other Side of The Wind. Ma è davvero di Welles? O è frutto della tenacia di Bogdanovich e del talento del montatore Lee “Bob” Murawski? La risposta ce la dà Charles Foster Kane in Quarto potere: “Lei si preoccupa di quello che pensano gli altri? Su questo argomento posso illuminarla, io sono un’autorità su come far pensare la gente”. Nessun dubbio quindi.
Bogdanovich (da produttore esecutivo e interprete) mette in piedi l’ultimo spettacolo del Grande Illusionista. Le immagini cambiano formato, si colorano per poi tornare al bianco e nero. Battute grottesche si mescolano ai tormenti dei protagonisti, i sorrisi lasciano il passo ai litigi, alle incompatibilità. Al centro un uomo di potere, un “Falstaff” tornato dal suo esilio in Europa, un “Macbeth” prossimo alla follia, un “Otello” traditore. Il suo nome è Jake Hannaford, uno degli ultimi mostri sacri di Hollywood.
Viene organizzata una festa in suo onore: i giornalisti sono ovunque, tutto è documentato. Il party si trasforma in una sorta di processo kafkiano. La colpa di Hannaford? Nessuna. O forse quella di amare la macchina da presa, di essere attratto dal suo divo. Ha il volto di John Huston, ma in realtà stiamo guardando Orson Welles stesso, intrappolato in un The Dead – Gente di Dublino senza neve.
I sentimenti, le storie che si sovrappongono, e poi spazio al “metacinema”, al grande schermo che ci porta verso un altro lungometraggio. Viene proiettato l’ultimo lavoro di Hannaford, con un aguzzo utilizzo dell’ironia. Due giovani si rincorrono, si desiderano, si prendono e si lasciano sfidando i canoni del senso comune. Le trame si attorcigliano, ci si perde per poi ritrovarsi, come ne La signora di Shangai. È un gioco di specchi, un trompe-l'œil, un 8½, un’altissima riflessione sulla settima arte. Il testamento di un gigante, l’immortalità del suo genio. E che gran bel titolo L’altra faccia del vento! (disponibile su Netflix).