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Intrigo a Berlino

Tratto dall'omonimo romanzo di Joseph Kanon, il film si presenta come un omaggio esplicito a tutta una serie di pellicole girate negli anni '40. Con George Clooney e Cate Blanchett

The Good German

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
 

E’ già un fatto evidente a pubblico e critica che la filmografia di Steven Soderbergh possiede due anime: quella più mainstream, divertita e rivolta al botteghino di “Out of Sight” (id., 1998), “Traffic” (id., 2000) e “Ocean’s Eleven” (id., 2001), ed una invece maggiormente autoriale ed intellettualoide, che spesso lo ha portato a realizzare opere di irritante spocchiosità. Chi si ricorda ad esempio “Delitti e segreti” (Kafka, 1990) o il più recente “Full Frontal” (id., 2002)? Ebbene, quest’ultimo “Intrigo a Berlino” può senza dubbio essere inserito in questa seconda categoria, e pur non raggiungendo i picchi di fastidio che hanno provocato le pellicole appena citate, risulta un lungometraggio dall’impostazione esplicitamente artificiosa. Tratto dall’omonimo romanzo di Joseph Kanon, il film si presenta come un omaggio esplicito a tutta una serie di pellicole girate negli anni ’40, da “Il terzo uomo” (The Third Man, 1948) di Carol Reed a “Scandalo internazionale” (A Foreign Affair, 1948) di Billy Wilder, ma soprattutto il “Casablanca” (id., 1942) di Michael Curtiz. La trama noir che si dipana secondo un meccanismo a scatole cinesi, il bianco e nero contrastato della fotografia, la recitazione accentuata di Clooey e soprattutto della Blanchett: ogni cosa in ”Intrigo a Berlino” è stata assoggettata all’idea di riprodurre l’atmosfera e l’estetica di quel periodo di cinema, aggiornandolo però alla crudezza del linguaggio e dei dialoghi contemporanei. Il risultato finale è un ibrido magari anche elegante nella confezione, ma che tutto sommato possiede una freddezza di fondo che quasi mai permette allo spettatore di interessarsi alla storia o alla psicologia dei personaggi messi in scena. Soderbergh ha indubbio talento visivo e Paul Attanasio è uno sceneggiatore di grandissima competenza: il loro lavoro però si risolve in una copiatura di stilemi narrativi passati e non aggiunge nulla di nuovo né re-interpreta un periodo glorioso del cinema americano. “Intrigo a Berlino” rimane così un’opera del tutto esteriore, troppo intellettuale per convincere in pieno. La strada dell’omaggio secondo noi non può passare attraverso lo sterile ricalco.