Robert Pattinson è solo, stanco, demoralizzato. Si muove nei corridoi di una nave spaziale decadente, in rotta verso l'ignoto. Accudisce una bambina piccola, una serra, e tiene rapporti quotidiani sullo stato del viaggio, mentendo. High Life di Claire Denis parte con il piede giusto ma poi, a un certo punto, qualcosa si incrina e la linea di separazione tra fantascienza d'autore e film soporifero viene superata.
High Life è la storia di un viaggio senza speranza: a un gruppo di galeotti è stata offerta la sospensione della pena (ergastolo o peggio) in cambio di fare da cavie a esperimenti scientifici a bordo di una nave spaziale che salpa alla velocità della luce verso un buco nero. Sulla Terra passano i secoli ma gli “astronauti” non invecchiano che di pochi anni. Questo ineluttabile viaggio verso una morte atroce inizia a far impazzire l'equipaggio e mietere vittime. Denis sceglie di raccontare questa inquietante storia in flashback, svelando piano piano cosa sia andato storto.
Non è però una storia così interessante, né originale. La regista si affida a un ritmo alla 2001: Odissea nello spazio; ma Kubrick riusciva a gestire magistralmente la lentezza del suo film, qui la noia è sempre dietro l'angolo. Nel voler parlare di temi universali come colpa, redenzione, speranza, isolamento, morte, Denis dimentica di scrivere e dirigere personaggi e situazioni che possano farci palpitare. High Life è il tipico caso di un film schiacciato dalle sue ambizioni: sembra che ci sia tanta carne al fuoco in superficie, ma, se si gratta via la patina da film “difficile”, non resta molto.
Il reparto scenografico è la cosa migliore. High Life mescola suggestioni dalla fantascienza classica e moderna, da 2001 a Dark Star, due estremi qui riuniti (da un lato i laboratori asettici, dall'altro la decadenza di una struttura vecchia e abbandonata a se stessa), passando per 2002: La seconda odissea. Interstellar se ne sta lì, appollaiato in alto, a far sentire la sua ingombrante presenza quando il film ci mostra i buchi neri. Ma il film di Christopher Nolan è ben lontano, in tutti i sensi.
Si vede che Denis voleva raccontare un lato diverso dell'esplorazione umana. Il lato spesso nascosto: non la marcia trionfale verso la frontiera che ha nutrito da secoli il mito americano, ma la fuga disperata dei profughi, dei reietti, persino dei criminali, che ha alimentato le vere migrazioni nei secoli. La regista include anche immagini scioccanti – violenza sulle donne, una lunga sequenza in cui Juliette Binoche si masturba in una stanza dedicata proprio all'appagamento sessuale, sangue, liquidi corporei. Il tutto nel nome di un approccio alternativo e sconvolgente al materiale. Eppure gira a vuoto su se stessa e ci lascia con un finale sulla carta affascinante, ma in realtà insoddisfacente perché non arriva dopo un adeguato crescendo emotivo.
Resta un'opera strana, tra esercizio intellettuale e spocchia, che non mancherà di generare un piccolo seguito di culto come sempre succede per film così divisivi.