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Fahrenheit 9/11
Premiato con la Palma d'oro al festival di Cannes, il documentario di Michael Moore sfrontatamente anti-Bush, dopo aver ottenuto il consenso di pubblico e critica di tutto il mondo arriva finalmente nelle sale italiane.

12.04.2007 - Autore: Michela Saputi
Usa 2004; di Michael Moore
Palma d’oro 57° Festival di Cannes
Già con Bowling a Colombine, pluripremiata indagine sul mercato delle armi negli USA, si era fatto notare a Cannes come temerario provocatore, deciso a scomodare illustri poltrone. E con il nuovo Fahrenheit 9/11, documentario sfrontatamente anti-Bush, non ha deluso le aspettative: consacrazione con la Palma d’oro 2004 ed ovazione del pubblico, ma anche film più discusso, e contestato, di questa stagione.
La prima parte del film cerca di far luce su responsabilità ed omissioni riguardo gli attentati dell’11 settembre. L’inchiesta si incentra sulla Presidenza Bush, perchè troppe domande attendono una risposta, a partire dalla prima, importantissima, che apre il film mentre insinua una preziosa chiave di lettura: è stato solo un sogno, o Al Gore vinceva le elezioni? Anche in Florida già tutte le emittenti tv ne annunciavano la vittoria, finchè la Fox News (certo non una qualunque) ha proclamato l’esatto contrario: vince George Bush. Se lo dice la Fox, si dicono le altre, deve essere così, scusandosi con il pubblico.
Ma questa è solo la prima delle poco edificanti vicende che costellano la carriera dell’attuale Presidente, dalle disavventure militari e poi quelle petrolifere in Texas, sempre coperte da spalle potenti, ai rapporti imbarazzanti dei Bush con la famiglia reale saudita e la famiglia Bin Laden (amici fatti frettolosamente espatriare su jet privati, nonostante il blocco dei voli, all’indomani degli attacchi). Un susseguirsi incandescente di gag tragicomiche (tra strette di mano e sguardi di intesa), si alternano in un montaggio geniale alle migliori performance espressive dell’illustre protagonista, che raggiungono il culmine della drammaticità quando, mentre visita una scuola, gli viene comunicato l’attacco alle torri: sguardo fisso nel vuoto, come una marionetta inerte se qualcuno non muove i fili.
Il “blob” di immagini di repertorio si esaspera nella seconda parte del film, tesa ad analizzare la natura della guerra: in Iraq il dolore del popolo, la distruzione, le amarezze dei soldati (grazie al materiale girato da freelance che fa impallidire i grandi network mediali); negli Usa le famiglie dei caduti, i reclutatori rapaci nei quartieri più poveri, continui stati di massima allerta, tra lacune inspiegabili nella sicurezza interna ed una legge come il Patriotic Act, che in nome del controllo mina le libertà individuali.
Ed a suggello le dichiarazione di industriali occidentali, che partecipano ad un vertice in Iraq, sulle favolose opportunità aperte agli affari.
L’obiettivo primario di esporre i fatti secondo molti (forse anche infastiditi dall’ironia su temi gravi) sottomette la creatività ad una superficialità di toni, e ad una demagogia di facile consumo, non casuali a ridosso della campagna presidenziale in Usa.
È vero, Fahrenheit è un film che infastidisce, ed il regista non nega di fare cinema per parlare alla gente, stimolarla, suscitare il dibattito.
Ma il rifiuto di toni apologetici e la comicità dissacratoria non appiattisce il discorso a propaganda politica, riesce anzi a spiazzarci, opponendosi a quell’effetto anestetizzante da martellamento di immagini tanto drammatiche quanto deflazionate.
Un documentario esplosivo anche a livello linguistico, che capovolge i cliché catastrofici della macchina dei media (esemplare la presentazione caricaturale dei Paesi della coalizione, come un ragazzo che si accende una canna in rappresentanza dei Paesi Bassi ).
Quello di cui Moore ci parla è la paura, l’isteria collettiva, come perfetto strumento del potere per manipolare la realtà, fino a spingere le persone a credere di dover rinunciare alle proprie libertà, pur di essere protette. Discorso noto forse, eppure ancora innegabilmente necessario.
Come dire, che fare se da una parte esiste una effettiva minaccia, e dall’altra non la luce ma lo sfruttamento? Tanto per cominciare, non rifiutarsi di cercare la verità.