Il cinema di Gus Van Sant ama raccontare lo straordinario nella vita di tutti i giorni. In Will Hunting un ragazzo comune pulisce i corridoi di una prestigiosa università, ma è un genio della matematica in erba. In Scoprendo Forrester uno studente del Bronx riesce a trovare la sua strada attraverso la letteratura, e in Milk un ispirato Sean Penn leva la sua voce per difendere i diritti degli omosessuali e fare la storia. Personalità uniche, senza eguali, che si contrappongono al lato oscuro dell’animo umano di Elephant e Paranoid Park. Tante facce di Van Sant, che con Don’t Worry torna a mettere in scena la forza dello spirito e i sogni infranti.
Unisce con leggerezza due figure classiche del cinema hollywoodiano: quella dell’alcolizzato e di chi è costretto su una sedia a rotelle. Il regista condensa tutto il suo immaginario in John Callahan, un vignettista satirico realmente esistito. La sua ironia era sempre oltre le regole, spesso osteggiata perché rifiutava i canoni imposti dai benpensanti. Un incidente d’auto a ventiquattro anni sembrava avergli rubato anche la speranza, ma è proprio qui che la macchina da presa inizia a narrare l’incredibile, la tragedia che si trasforma in favola romantica.
Callahan si rialza, affronta i suoi drammi di petto e si mette a combattere le dipendenze, anche se non può più camminare. Mai arrendersi, sempre guardare oltre l’orizzonte, suggerisce Van Sant, che costruisce il suo film sulle spalle di un ottimo Joaquin Phoenix, maestro nel mostrarsi sofferente, ma con il sorriso sul volto.
All’inizio doveva esserci Robin Williams al suo posto, che aveva acquisito i diritti della vicenda. Si legge il suo nome nei titoli di coda, e un brivido corre lungo la schiena se si pensa che ormai non c’è più da quasi quattro anni. In fondo è come giocare con l’impossibile, è inutile fantasticare su quello che avrebbe potuto essere Don’t Worry con Williams. Oggi c’è Phoenix al suo posto, che nei panni di Callahan deve lottare contro i demoni del passato, per inseguire un futuro migliore.
“Vi dirò tre cose su mia madre: era rossa, irlandese e faceva l’insegnante. E poi mi ha abbandonato”. Callahan si presenta così alla sua platea, cercando di ridere su un’infanzia che lo ha distrutto. Come cantava David Bowie in Changes: “Non so ancora che cosa stessi aspettando, ma il tempo mi ha cambiato”. E così succede al protagonista, prima in balia degli eventi, poi padrone della sua esistenza. Voltarsi indietro non serve, bisogna andare avanti, aggrapparsi al proprio talento. Callahan sa disegnare, ha un umorismo travolgente, così i suoi bozzetti iniziano a parlare da soli, a farlo divertire anche nei momenti più bui.
Don’t Worry è un processo di liberazione dal collo della bottiglia, dal trauma di essere stato adottato, dalla paura di non essere accettati. A fare da spalla a Phoenix c’è l’istrionico Jonah Hill, qui un ricchissimo “santone” malato di Aids. Lui gestisce un piccolo gruppo di recupero, cerca di salvare se stesso e gli altri, anche se sa di essere condannato. Come un capitano non abbandona mai il suo equipaggio, soprattutto quando la nave sta affondando. E nella tempesta il disperato riesce a ritrovare la propria umanità.
Unisce con leggerezza due figure classiche del cinema hollywoodiano: quella dell’alcolizzato e di chi è costretto su una sedia a rotelle. Il regista condensa tutto il suo immaginario in John Callahan, un vignettista satirico realmente esistito. La sua ironia era sempre oltre le regole, spesso osteggiata perché rifiutava i canoni imposti dai benpensanti. Un incidente d’auto a ventiquattro anni sembrava avergli rubato anche la speranza, ma è proprio qui che la macchina da presa inizia a narrare l’incredibile, la tragedia che si trasforma in favola romantica.
Callahan si rialza, affronta i suoi drammi di petto e si mette a combattere le dipendenze, anche se non può più camminare. Mai arrendersi, sempre guardare oltre l’orizzonte, suggerisce Van Sant, che costruisce il suo film sulle spalle di un ottimo Joaquin Phoenix, maestro nel mostrarsi sofferente, ma con il sorriso sul volto.
All’inizio doveva esserci Robin Williams al suo posto, che aveva acquisito i diritti della vicenda. Si legge il suo nome nei titoli di coda, e un brivido corre lungo la schiena se si pensa che ormai non c’è più da quasi quattro anni. In fondo è come giocare con l’impossibile, è inutile fantasticare su quello che avrebbe potuto essere Don’t Worry con Williams. Oggi c’è Phoenix al suo posto, che nei panni di Callahan deve lottare contro i demoni del passato, per inseguire un futuro migliore.
“Vi dirò tre cose su mia madre: era rossa, irlandese e faceva l’insegnante. E poi mi ha abbandonato”. Callahan si presenta così alla sua platea, cercando di ridere su un’infanzia che lo ha distrutto. Come cantava David Bowie in Changes: “Non so ancora che cosa stessi aspettando, ma il tempo mi ha cambiato”. E così succede al protagonista, prima in balia degli eventi, poi padrone della sua esistenza. Voltarsi indietro non serve, bisogna andare avanti, aggrapparsi al proprio talento. Callahan sa disegnare, ha un umorismo travolgente, così i suoi bozzetti iniziano a parlare da soli, a farlo divertire anche nei momenti più bui.
Don’t Worry è un processo di liberazione dal collo della bottiglia, dal trauma di essere stato adottato, dalla paura di non essere accettati. A fare da spalla a Phoenix c’è l’istrionico Jonah Hill, qui un ricchissimo “santone” malato di Aids. Lui gestisce un piccolo gruppo di recupero, cerca di salvare se stesso e gli altri, anche se sa di essere condannato. Come un capitano non abbandona mai il suo equipaggio, soprattutto quando la nave sta affondando. E nella tempesta il disperato riesce a ritrovare la propria umanità.