E’ diventato facilissimo volere bene agli psicopatici raccontati da Rob Zombie. Bastano pochi minuti del nuovo 3 from Hell per capire per chi fare il tifo. Chi sono i veri mostri? Il regista torna a rispondere a questa domanda e a raccontare serial killer e maniaci con la solita mano sicura con cui riesce a portare lo spettatore dall’altra parte della mente degli esseri umani. Lì dove la realtà diventa buia per poi tornare a illuminarsi di rosso sangue. Nessuno meglio di Zombie è riuscito a farci empatizzare con mostri simili nel cinema made in USA: d’un tratto ci ritroviamo in mezzo a loro, affascinati, ipnotizzati. Totalmente in sintonia.
3 from Hell trasforma in trilogia la saga iniziata dal regista con La casa dei mille corpi (2003) e proseguita con La casa del diavolo (2005). Si tratta del capitolo più accessibile dei tre. Il meno disturbante, dove Zombie porta a termine il transfert vittime-carnefici nell’America di Reagan che tanto somiglia alla odierna Trumpland. Chi sono dunque i veri mostri? Sono i “reietti del diavolo” finiti in galera e glorificati dai media e dalle persone che hanno iniziato a stampare i loro volti sulle t-shirt? Oppure i mostri sono le loro stesse vittime, personaggi disgustosi che contribuiscono a infangare gli Stati Uniti d’America?
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Le ultime scene de La casa del diavolo si concludevano con una corsa in cui sulle note di Free Bird i tre protagonisti sfrecciavano liberi verso un posto di blocco. Una sequenza potentissima dove Zombie iniziava a simpatizzare con i reietti trasformandoli in veri e propri simboli di ribellione. La musica dei Lynyrd Skynyrd lasciava il posto ai fischi delle pallottole con i tre che venivano crivellati dalle forze dell’ordine. L'immagine si bloccava e i loro cadaveri non venivano mai mostrati. Ma era impossibile che non fossero morti. I primi minuti di 3 From Hell mostrano come siano sopravvissuti alla pioggia di piombo, quasi fossero supereroi indistruttibili degni del cinema di Shyamalan, ciascuno in grado di sopravvivere a venti pallettoni in corpo.
In effetti un po’ supereroi lo sono, specialmente la Baby Firefly interpretata da Sheri Moon Zombie (l’asso nella manica sul set del regista, sua moglie nella vita): una donna la cui follia rappresenta un superportere. La galera ha affilato la sua schizofrenia e ora è in grado di sopravvivere a qualsiasi evento. Eccola sulla schermo, alta uno e ottanta, sorriso costante e una camminata fluttuante. Bellissima, ipnotica e letale. Non più spaventosa, ma irresistibile, specialmente quando la si vede affrontare l’udienza per la libertà sulla parola, mentre spacca i nasi delle guardie a testate. Il regista la equipaggia di arco e frecce e le mette addosso un copricapo indiano. Iconica più di qualsiasi Harley Quinn.
Evasa di prigione, Baby si riunisce col fratello Otis (Bill Moseley) per una nuova corsa in macchina attraverso gli USA. Non è uno spoiler notare come il film rinunci immediatamente a Sid Haig nei panni del clown Captain Spalding, star dei due film precedenti, qui rimpiazzato da Richard Brake nel ruolo di uno psicopatico soprannominato “Lupo mannaro”. L’horror dei primi due film di Zombie, che disturbava cercando il più possibile di spingerci fuori dallo schermo, qui lascia il posto al tifo per i suoi antieroi. Ci si mette veramente poco a entrare in quelle immagini buie e sudicie. Accade la stessa cosa vista nella saga di Nightmare, dove dal quarto capitolo in poi si faceva il tifo per Freddy.
Zombie riflette sull’America di oggi e dice la sua sui redneck e gli spacconi elettori del presidente in carica. Una nazione che cuoce a fuoco lento in un calderone di rabbia. Un posto in cui forse non vale più la pena vivere. È qui che i tre reietti del diavolo si guardano in faccia e in un attimo trovano la risposta nella scena più importante del film: “abbiamo sempre tutto il tempo per creare altre distruzioni”.
Zombie riflette sull’America di oggi e dice la sua sui redneck e gli spacconi elettori del presidente in carica. Una nazione che cuoce a fuoco lento in un calderone di rabbia. Un posto in cui forse non vale più la pena vivere. È qui che i tre reietti del diavolo si guardano in faccia e in un attimo trovano la risposta nella scena più importante del film: “abbiamo sempre tutto il tempo per creare altre distruzioni”.
Il commento sociale non è poi tanto distante da quello di Natural Born Killers – Assassini nati, con Zombie che rifà Oliver Stone nel modo in cui indugia su primi piani dei personaggi, catturandone le labbra, i denti, i ghigni, la lingua. E avvicinandoli più che mai a chi sta a guardare. L’horror diventa un pop-corn movie. Il film più mainstream di Rob Zombie che finisce per trasformarsi un po’ in un action alla Robert Rodriguez nell’ultimo atto in cui i protagonisti si ritrovano in Messico promettendo di ricreare “una vera festa di morti”.
3 from Hell è dunque uno "Rob Zombie accessibile", una strizzata d’occhio del regista al suo pubblico. Assistere al film è come vedere l'ultima stagione di una serie televisiva che amiamo, quella in cui si chiudono i conti in fretta accontentando tutti e puntando al puro fan-service. E anche per questo, seppure appagante e divertente, il film potrebbe deludere i puristi dell'horror disturbato e disturbante dei primi due capitoli della saga.
3 from Hell visto in anteprima mondiale al Fantasy FilmFest di Berlino, non ha ancora un distributore in Italia.
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