Telluride, Toronto, New York… il film di Steve McQueen ha avuto la sua marcia trionfale da un festival all'altro, tutti per altro rigorosamente nordamericani, attraversando schiere di critici e spettatori osannanti verso una plebiscitaria candidatura all'Oscar (il film è stato nominato a nove statuette). Forse troppo. Perché certi plausi preventivi spesso non giovano a un film e una tale crescita di aspettative rischia di fuorviare il pubblico a venire.
Il fatto e' che una storia vera come quella del violinista nero Solomon Northup, uomo rispettato e padre di famiglia nel liberale stato di New York, che da libero cittadino si ritrova venduto come merce nel Sud schiavista del 1841, non puo' non indignare e far sì che il pubblico si senta 'per sempre' coinvolto. Non e' certo una colpa, per un film che sicuramente beneficia di questa carica empatica naturale, anzi; ma al di la' dell'istintiva emotivita' che si scatena in alcune scene davvero intense il rapporto con la storia non mantiene un livello costante.
L'inizio (prologo compreso) ci mostra uno Steve McQueen padrone della situazione - anche in maniera ostentata forse, con giochi di macchina e il ripetersi di certo indulgere su dettagli della scena - ma l'attenzione si sposta rapidamente sul dramma del protagonista. La sua trasformazione in schiavo e i primi scontri con questa condizione sono forse i momenti piu' belli del film, anche per il confronto con Paul Dano e Benedict Cumberbatch (ma il Giamatti venditore regala perle), relegati in ruoli di contorno o (ovviamente) da 'non protagonisti' importanti e recitati con una capacita' che non sempre abbiamo visto loro esprimere.
E la ovvia (considerata l'origine libresca e autobiografica della storia) conclusione del film - con l'apparizione del produttore Brad Pitt in versione 'falegname ex machina' e il concatenarsi successivo degli eventi - poggia su tanta di quella tradizione e storia che dovrete far fatica a seguire le ultime battute tra le manifestazione di commozione dei vicini di poltrona.
Forse, paradossalmente, e' proprio il corpo centrale della vicenda ad affossare l'immedesimazione. Lungo e a tratti involuto, forzato in alcuni punti, completamente affidato a un ottimo Chiwetel Ejiofor - sicuramente piu' a suo agio con una gestione trattenuta delle emozioni che con le scene piu' esplicite, coerentemente con una passivita' generale del suo personaggio, testimone dell'orrore che gli si sviluppa intorno - non supportato quanto ci saremmo aspettati dalla presenza del vecchio amico del regista, Michael Fassbender. Alla terza esperienza, dopo "Hunger" e "Shame", l'attore feticcio di McQueen stavolta non e' l'arma in piu' del film, troppo sopra le righe e stereotipato sicuramente per delle scelte di sceneggiatura e di direzione che potreste - come noi - non condividere.
Questo 12 anni schiavo resta comunque un affresco storico importante, con grandi interpretazioni che ritroveremo (anche se forse solo il platea) a marzo al Kodak Theatre e una grande cura realizzativa (musiche e costumi su tutti). Complessivamente un film da non perdere e una storia da tenere a mente, anche piu' di quanto non venga naturale fare dopo la visione.
12 anni schiavo, in uscita il 20 febbraio, è distribuito da Bim.
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12 anni schiavo - La nostra recensione
Steve McQueen colpisce forte, ma la scossa emotiva trasmessa al pubblico non sembra di quelle persistenti.
12.10.2013 - Autore: Mattia Pasquini