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Prova ad incastrarmi

La storia del processo più lungo degli Stati Uniti. Un clan mafioso sta per essere inchiodato dalla procura federale quando l'imputato Jackie DiNorscio decide di fare l'avvocato di sé stesso piuttosto che tradire...

FIND ME GUILTY

12.04.2007 - Autore: Francesco Persili
Find me guilty
Regia: Sidney Lumet
Cast: Vin Diesel e Annabella Sciorra

Il più lungo processo della storia giudiziaria americana. Ventuno mesi di udienze, una maratona estenuante. Settantasei capi di imputazione diversi per i venti componenti del clan mafioso dei Lucchese ("comandavano loro nel New Jersey e nessun altro"). La procura federale pare sul punto di inchiodarli. Una sfilata di testimoni, prove, colpi bassi. Ma uno degli accusati, ”Jackie” DiNorscio rifiuta di testimoniare contro la sua famiglia. Decide di difendersi da solo. Con rozza semplicità e senso dell’umorismo, invero assai grossolano, parla al cuore e alla pancia dei giurati. Fa il buffone, esagera, esercita un carisma impudente ed irresistibile. Trasforma l’aula in un circo. Sfida gli errori, le contraddizioni dell’autorità, i pregiudizi sugli italiani d’America. E pure quel brocardo stars and stripes: ”l’avvocato di se stesso ha per cliente uno sciocco”. Va a briglie sciolte, altro che la stringente logica leguleia, lui preferisce buttarla in burletta: ”Non sono un malavitoso, sono solo spiritoso”. Un one man show che fa arrabbiare tutti. Il giudice, l’accusa, i suoi stessi amici. Svitato, sfacciato, sincero, Jackie è l’adorabile canaglia, il magnifico bugiardo, la rottura pazza del sistema. L’umano insolito ed irregolare. Il perfetto antieroe che ha la faccia tosta (e il parrucchino posticcio) di un sorprendente Vin Diesel. Senza effetti speciali, con molti chili, e tanta ironia in più e (finalmente) qualche muscolo in meno. Un talento istrionico,sregolato e bizzarro che si avventura nel grande mare della giustizia americana fa simpatia. Malgrado la serietà dell’argomento riesce a strappare il sorriso del pubblico e quello dei giurati in aula. Che poi, si sa, come vanno le cose da quelle parti, ”giuria che ride, giuria che non punisce”…

Una storia avvincente ricostruita intorno a fatti veri e testimonianze autentiche. La pellicola ha la tensione e la densità di un ”drammone” processuale con sprazzi di legal-thriller e spartito tipico alla Lumet. Criminalità-tradimento-redenzione, secondo lo schema collaudato del grande vecchio del cinema mondiale. In filigrana il tema della giustizia con i suoi conflitti, le strettoie della legge, la certezza del diritto che si frange in mille rivoli e s’avvoltola nell’ambiguità di quel ”sia fatta giustizia, costi quel che costi”. Sferzato dalla saturnina vitalità del protagonista, il film rivela complessità di metodo e di indagine. Racconta di certa criminalità mafiosa lo spirito di fratellanza, la lealtà e il sacrificio, il senso d’appartenenza. Ha ritmo, slancio, idee. L’occhio, sempre ispirato e rivelatore, del regista americano (chi non ricorda "La parola ai giurati", "Serpico", "Quel pomeriggio di un giorno da cani", "Il verdetto"?) appuntato, come da copione, sull’indecifrabile confine che separa legalità e crimine. Girato prevalentemente in ”interna”, l’aula del tribunale dove si celebra il processo s’allarga invece d’allungarsi. E’ 'diversa', più sala da ballo che pista da bowling, con i giurati seduti davanti allo scranno dei giudici, per meglio sottolineare l’eccezionalità dell’evento. Ogni scena riesce ad essere straordinariamente efficace grazie ai colori reali dell’alta definizione, alla ripresa ”stretta” sui personaggi. E al tocco ”magico” del Maestro che sul set continua a rendere a tutti le cose facili e apparentemente poco faticose.

Buono il cast. Un film da vedere (sempre e comunque). La frase:  ”Non sono un gangster, sono un gag-ster”
FILM E PERSONE