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Non c'è pace alla fine di tutto questo

Stavolta Spielberg non cede mai il nerbo del film. La spina dorsale resta priva di sentimentalismi e Munich diventa via via più scuro, più ambiguo e meno consolatorio. Munich è un atto di coraggio e coscienza.

Munich

12.04.2007 - Autore: Claudio Moretti
Olimpiadi 1962. Il gruppo palestinese del Settembre Nero attacca la squadra israeliana nel villaggio Olimpico di Monaco. Uccide due persone e prende nove ostaggi chiedendo la liberazione di 234 prigionieri palestinesi. Tutti e nove vengono uccisi durante gli scontri all’aeroporto di Monaco nelle ore successive.

La storia che Spielberg ci racconta non è quella dell’attentato, già magistralmente ricostruita dal documentario fregiato con l’Oscar One day in September. Il regista di Salvate il soldato Ryan mette in scena invece quello che accadde dopo quel giorno di settembre a Monaco.

Il primo ministro israeliano Golda Meir commenta: “Scordatevi la pace per ora”. Per il governo israeliano l’idea di ebrei uccisi in Germania un’altra volta è davvero troppo da sopportare. Un agente del Mossad (l’intelligence israeliana), l’attore australiano Eric Bana, guida un gruppo di cinque persone che ha il compito di scovare e uccidere gli 11 palestinesi coinvolti nell’azione di Monaco. I membri del gruppo non rispondono ai classici script dei film d’azione. Mathieu Kassovitz è un costruttore di giocattoli che per hobby si diverte a confezionare bombe che tendono a non esplodere quasi mai secondo i piani. Hanns Zischler è un antiquario esperto in documenti falsi, Ciaran Hinds è quello che ripulisce la scena del delitto da prove compromettenti, Daniel Craig è l’autista belloccio assetato di vendetta più degli altri.

Stavolta Spielberg non cede mai il nerbo del film. La spina dorsale resta priva di sentimentalismi e Munich diventa via via più scuro, più ambiguo e meno consolatorio. Munich è un atto di coraggio e coscienza. Il regista di Schindler’s List, il creatore della Shoah Foundation, il più famoso ebreo nel mondo del cinema, ha messo se stesso tra israeliani e palestinesi, per osservare decenni di terrorismo e rappresaglie. Un suo personaggio concluderà: “Non c’è pace alla fine di tutto questo”.

L’ossessione della patria è qualcosa di scritto a fuoco nel DNA degli ebrei. La tanto agognata casa li accoglie solo dopo la Seconda Guerra Mondiale con la nascita dello stato di Israele. Quando negli anni ’70 gli attacchi dell’OLP mettono a rischio quella terra, un uomo abbandona la sua patria, la sua casa e sua moglie in attesa di un bambino per difenderla. Qui sta il cuore del film. Qual è la patria di un uomo? Qual è il prezzo da pagare? Eric Bana si ritrova a desiderare una cucina spiandola dalla vetrina di un negozio di arredamento e quando tornerà da sua moglie sarà un uomo diverso, pieno di paranoie, assiderato nei sentimenti, con troppo sangue nelle mani.

Il film, ambientato negli anni ’70, è girato in uno stile nervoso che richiama i thriller di Friedkin e Pakula. D’altronde è il primo film che Spielberg gira senza utilizzare lo storyboard. E si nota nello stile impulsivo e improvvisato di molte scene. In questo modo riesce ad evocare quasi un sentimento da docu-drama, ben assistito dalla fotografia desaturata di Janusz Kaminski. A volte la sensazione di urgenza e la mancanza di pulizia nello stile inghiotte tuttavia anche alcuni elementi del racconto che cadono facilmente nel generico. Ma sono colpe lievi, come quelle per un personaggio un po’ troppo calcato (l’informatore Louis).

Con Munich Steven Spielberg entra con successo nel territorio di Costa-Gravas. Un pugno nello stomaco della Questione Palestinese. Con un felice sguardo d’insieme partendo dagli occhi del protagonista, Spielberg riesce a mettere in gioco tutte le ramificazioni del terrorismo: politiche, morali e storiche.

Il film, essendo una produzione senza star di rilievo, è presentato e pubblicizzato come un film di Steven Spielberg. In realtà Munich è forse il film meno spielbergiano della sua carriera. Detto con le dovute lodi per coraggio e risultati.

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