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Il tempo dei lupi

Prima di tutto armarsi di ironia, ferrea volontà e coraggio di mettersi in gioco. E poi anche di un po' di pazienza. Con Il tempo dei lupi, il discusso e controverso Michael Haneke (La pianista), continua le sue provocazioni, fatte di inquietanti silenzi e risvolti segreti della realtà quotidiana.

Il tempo dei lupi

12.04.2007 - Autore: MIchela Saputi
Francia-Austria, 2004; di Michael Haneke, con Isabelle Huppert, Patrice Chéreau Selezione ufficiale fuori concorso 56° Festival di Cannes.     Già dai titoli iniziali una strana sensazione ci avverte che questa non è la storia di una famiglia come tante, che va nella sua casa di campagna in cerca di relax . Un evento inaspettato e tragico sconvolge infatti presto le loro vite. Giunti dalla città pieni di scorte, la madre (Isabelle Huppert), con i suoi due figli, è costretta a vagare in un paesaggio improvvisamente ostile, privo di confini, luce, volti e suoni "amici". E noi li seguiamo in cerca di una spiegazione, del perché gli uomini sono divenuti predoni, e barattano ogni cosa, e di come, in quale momento preciso, si è squarciato il velo sulla realtà: le risorse del pianeta sono allo stremo. A questa prima parte che esplora l'intimità della famiglia di fronte al dramma, tra il bisogno disperato di avvicinarsi e l'incapacità di comunicare, pone fine l'incontro con un pastore misterioso e per nulla rassicurante, che li guiderà in una stazione a sud, dove si dice che il treno si fermi a raccogliere i fuggiaschi. Si uniscono così ad una variopinta comunità di profughi in attesa (per lo più professionisti dalla città, ma c'è anche una famiglia di stranieri-profughi tradizionali-), e insieme dovranno fondare un necessario (?) ordine sociale, riconoscere ad un uomo arrogante il diritto di interpretare la legge, subire l'orgoglio di chi pensa che niente lo riguardi veramente.   Quasi perfidamente ci viene negata ogni facile soddisfazione, ogni possibilità di una logica soluzione, sono le parole non dette a riempire con la forza di un grido quel vuoto che Haneke crea dentro di noi (agghiacciante la morte del bambino straniero privato dell'acqua dal capo bianco, ripresa solo attraverso le gambe dei personaggi), liberandoci dalle consuete rappresentazioni mediali della realtà e della violenza, illusioni di poter spiegare e risolvere ogni cosa. Inseguiamo frammenti, indizi, che ci confondono, ci violentano, ponendoci di fronte ai nostri limiti e alle nostre perversioni, sempre sul filo tra il coinvolgimento profondo e l'insofferenza più acuta, attimi di commozione convulsa e flash di cinica consapevolezza. Un film ricco di contrasti, intenso e duro, perfetto interprete del ruolo riservato da Haneke alla vera arte: "rendere le crisi più comprensibili e chiare, e l'oscurità in cui ci muoviamo un po' più trasparente".