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Great American Family

Modern Family, o di come realizzare una commedia nuova...

Modern Family

27.07.2011 - Autore: Ludovica Sanfelice
Il sapore grezzo della camera a spalla non deve trarre in inganno, qui va in onda uno dei prodotti più raffinati in circolazione. Per scrittura, interpretazione e impiego originale di un linguaggio ibrido. E se, colpevolmente, non lo abbiamo fatto prima, ora ci troviamo a radunare le ragioni per non perdersi un minuto di Modern Family che, non è un caso, si è fatta sentire alle ultime candidature degli Emmy Awards piazzando quasi tutti i suoi interpreti nelle rispettive categorie e mantenendo saldo un posto tra le migliori comedies di stagione.

Le ragioni, dicevamo, di un simile risultato sono varie. Partiamo dall’idea. Si sentiva l’urgenza di una nuova commedia sulla famiglia americana? No, ma di una commedia nuova sì! La sit-com, genere prediletto per raccontare ridendo la vita quotidiana, i problemi domestici, le dinamiche generazionali, aveva descritto l’evoluzione della famiglia americana allargandone i perimetri fino ad includere gli amici (Friends) e lì si è arenata nella ripetizione di un modello che comincia ad invecchiare. Quasi tutti gli show che hanno battuto questa pista nell’ultimo anno sono stati infatti impietosamente bocciati dal pubblico e cancellati dai network (vedi alla voce Better WithYou, Traffic Light, Perfect Couples….).

L’intelligenza di Modern Family è quella di aver saputo come smarcarsi da un simile angolo ripiegando su un altro genere narrativo: un colpo da fantasista fuoriclasse che ha riaperto la partita cambiando gioco. Così salta fuori il mockumentary che segue, mimandolo, il linguaggio ormai riconoscibile e riconosciuto della docufiction e ne sfrutta i vantaggi in due direzioni: la prima più strategica è che il pubblico capisce e accetta le nuove regole, la seconda più creativa è che utilizzando i meccanismi dell’allargamento della scena allo spettatore, cui la famiglia si racconta in modo diretto attraverso la parte delle interviste-confessione, si ampliano anche le sponde di una comicità che costruisce tantissime gag efficaci sul divario tra come i protagonisti agiscono e ciò che “realmente” pensano.

Non bisogna poi mai dimenticare che, non trattandosi di una docufiction bensì di una simulazione, lo sforzo nello scrivere la storia, girarla e interpretarla è un complesso gioco di prestigio che richiede perizia tecnica, intuito e un estro geniale. Tutto è finto ma eseguito ad arte affinchè sembri vero in ogni suo aspetto, tranne quello paradossale, cinico, grottesco e diabolicamente comico che corrisponde al fatto che è tutto finto… E, abracadabra, il sistema macchinoso assume la purezza di una semplicità disarmante, levigata e apparentemente distratta, la recitazione risulta spontanea nella sua fantastica follia vitale (le scene corali sono dei piccoli capolavori sinfonici in cui convergono tutte le forze di un cast di grandissimi professionisti), le riprese hanno il sapore dell’attimo colto casualmente, rubato o scivolato con candida armonia tra le pieghe del ritratto di una famiglia americana che è mille volte più moderna di quanto il titolo potrà mai fingere di ammettere.
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