Italia/Francia, 2005.
Di Mehdi Charef, Emir Kusturica, Spike Lee, Kàtia Lund, Jordan Scott, Ridley Scott, Stefano Veneruso, John Woo
Sette autori a confronto con sette piccole storie legate al
mondo dell’infanzia, un universo spesso travagliato da troppe
inquietudini e disturbi: l’indifferenza, le disagiate condizioni
economiche, la violenza degli adulti. In una società alienante e
contraddittoria come quella contemporanea, sette testimonianze della
condizione spesso difficile del mondo dei bambini.
A prescindere dal risultato estetico di questa produzione
internazionale finalizzata a scopi umanitari, sembra comunque un enorme
successo l’uscita nelle sale di quest’opera collettiva, che con troppo
ritardo rispetto alla pubblicità ottenuta all’ultimo festival di
Venezia arriva finalmente sui nostri schermi.
Di fronte allo sforzo comune e soprattutto al motivo che ha portato a
questo sforzo, dover analizzare la riuscita dei vari cortometraggi
sembra quasi superfluo, impietoso. Pur applaudendo tutti coloro che si
sono impegnati in questo progetto, dobbiamo quindi evidenziare come
alla fine sia venuto un prodotto decisamente eterogeneo, se non
addirittura discontinuo. Alcuni degli episodi – e purtroppo quello del
“nostro” Stefano Veneruso
è tra questi – sembrano aver avuto una gestazione parziale, ed una
realizzazione troppo affrettata: il risultato appare come qualcosa di
rabberciato, la cui messa in scena sa molto di improvvisazione. Altri,
come ad esempio John Woo, si lasciano andare ad un lirismo che non gli appartiene, scivolando nel melodramma e nel patetismo un po’ spicciolo.
Molto interessante è invece il lavoro compiuto da Kàtia Lund, già co-regista con Fernando Meirelles del “caso” City of God”
(Cidade de Deus, 2002): il suo corto è un riuscito intreccio di
ottimismo ed insieme di lucida critica delle condizioni
socio-economiche del suo paese.
Per ultimo, non possiamo però non parlare di un piccolo grande capolavoro, e cioè “Jesus Children of America” di Spike Lee.
Quando si tratta di andare dritto alle radici di un problema – in
questo caso il contagio con il virus dell’HIV - e di denunciarne
esplicitamente la portata, il cineasta newyorkese è ancora il migliore
in circolazione: il suo corto è duro, sferzante, problematico, e
soprattutto non lascia nessuna possibilità di essere ignorato. Spike Lee
non cerca la pietà dello spettatore, tutt’altro: con la sua messa in
scena scabra e sintetica cerca l’indignazione del pubblico, punta a
sdegnarlo attraverso l’arma della cognizione, della presa di coscienza.
Imperfetto e molto sfilacciato nella riuscita complessiva, questo collettivo “All the Invisibile Children”
rimane comunque ammirevole come sforzo ed impegno collettivo. Il
cortometraggio di Spike poi vale da solo il prezzo del biglietto, e
molto molto di più.


NOTIZIE
All the invisible children
Sette grandi autori a confronto con sette piccole storie legate al mondo dell'infanzia, un universo spesso travagliato da troppe inquietudini e disturbi

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani