Sempre di più Wes Anderson sembra essersi ormai caratterizzato come regista “privato”. Sia per la sensazione di appartenenza a un esclusivo circolo dei tanti che lo apprezzino per scelta estetica e affinità di spirito, sia per la sua tendenza - parte costituente del suo cinema - a raccontare storie in una maniera tanto personale e intima, con una tale compassione, da avere quasi l'impressione di essere di troppo durante una sua proiezione.
In questo “The Grand Budapest Hotel” accade lo stesso. E non. Per la nostra gioia, e disappunto insieme. La piccola delusione di aver ritrovato l'Anderson World (soprattutto quello emotivo e sentimentale) immutato, nel suo osservare in maniera quasi manierata e formalmente distaccata saghe “familiari” complesse, dolenti e surreali insieme; la gioia di averne potuto partecipare ancora, trovandovi luminosi seppur pochi lampi.
Il “crime”, l'action che in altre situazioni era stato affidato a personaggi animati o parodistici, qui si svolge in maniera forse anche troppo prolungata e prolissa. Probabilmente per l'evidente necessità di presentarci un affresco delle società praghesi degli anni '20 (tanto quella segreta, delle Chiavi Incrociate, quanto quella proto-assolutista che di nuovo invade la scena in una forma più esplicita di altre volte) entro il quale raccontare ancora una volta una storia d'amore. O più di una.
Con “Moonrise Kingdom”, Wes aveva spinto ancora più in alto il suo curriculum, unendo amore e morte in una veste candida. Oggi l'operazione ha lo stesso segno romantico, ancor più nostalgico, eppure l'empatia è minore. La partecipazione si ferma sul piano della narrazione e - per una volta - restiamo spettatori di quest'ultimo sogno del quarantacinquenne texano. Il libro che vediamo scriversi (anche registicamente) davanti ai nostri occhi, nella cronaca di un narratore d'eccezione e nella circolarità del ritmo, si conclude e si affida alla nostra sensibilità per eternarsi. Ma - forse per nostra incapacità, ma è colpa del fruitore o del demiurgo? - questo non sembra succedere.
Una piccola (grande) delusione, che si sconta durante la visione e che rimane addosso a lungo, e che rischia di vanificare la solita incredibile carrellata di scene e scenografie, camei e personaggi, ipnotiche ripetizioni e rocamboleschi inseguimenti dei quali non vi anticipiamo niente (ma Bill Murray, Edward Norton, Tilda Swinton, Jude Law, Willem Dafoe e persino il tanto bistrattato Ralph Fiennes basterebbero da soli) per non scoprire il gioco di Wes.


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Torna il regista di “Moonrise Kingdom”: un cast d'eccezione per un film troppo manierista

06.04.2014 - Autore: Mattia Pasquini