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Un regista da incubo
Michele Soavi il regista gotico, l'erede di Dario Argento, l'autore di "horror d'autore", torna sul piccolo schermo per raccontare la storia del serial killer Donato Bilancia

12.04.2007 - Autore: Teresa Manuela Plati
Michele Soavi il regista gotico, l’erede di Dario Argento, l’autore di “horror d’autore”, torna sul piccolo schermo per raccontare un vero noir da incubo: la storia del serial killer Donato Bilancia che tra l’ottobre del ’97 e l’aprile del ’98 uccise 17 donne.
Usi spesso la “chiave onirica” per raccontare i tuoi film, fondamentale quindi si rivela la scelta dei protagonisti. Nell’ “Ultima pallottola” Carlo Cecchi appare un killer calcolatore, un giocatore d’azzardo con la vita delle sue vittime; Giulio Scarpati è il capitano tenace, umano, un cane sciolto. Chi ha pensato a loro?
M.S.: ”Sono stati scelti di comune accordo con Pietro Valsecchi che - oltre ad essere il produttore - è anche un degno collaboratore, un creativo con quale c’è una grande stima e stimolazione reciproca. Interessante, poi, è stato lavorare sul personaggio di Giulio che nell’immaginario collettivo è conosciuto come una persona tranquilla: avere la possibilità e la sorpresa di poterlo stravolgere facendolo diventare sgarbato, a volte addirittura antipatico, è stato di grande interesse per me. Ho cercato in tutto il film di mettere piccoli pezzi di umanità, di verità, di cose che anch’io mi sono trovato ad affrontare lavorando - negli ultimi anni - su diversi film di profondità storiche e fatti reali come “La Uno bianca” e “Ultimo”.
Forte di questo addestramento e avendo personalmente conosciuto i veri protagonisti, ho assimilato quelle piccole sfumature che danno un senso di realtà alla narrazione ovviamente romanzata quando l’ho riportata sullo schermo.”
La tua biografia è caratterizzata dalla regia di film horror, ad alta tensione con soggetto principe il conflitto eterno tra bene e male. E’ casuale?/b>
M.S.: ”No, è una mia scelta.”
Una volta hai detto che la gente è attratta dal male. Perché secondo te?
M.S.: ”Credo che ci siano due modi per essere rassicurati: le lunghe serie come “Un posto al sole” dove tutto è brillante, i personaggi hanno delle storie minime e c’è una piccola casualità nelle situazioni attira una tipologia di pubblico.
Poi, invece, c’è quella fascia di telespettatori che si rassicura vedendo una situazione di estremo male e ne prova conforto perché vede quello che succede ad altri e che a loro non è mai capitato. Li fa stare meglio.”