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The Hours

Il film di Stephen Daldry tratto dallo strabiliante romanzo di Michael Cunnigham, Premio Pulitzer nel '99.

The Hours

12.04.2007 - Autore: Ludovica Rampoldi
Virginia Woolf scrive: La signora Dalloway disse che avrebbe comprato lei i fiori. E' la periferia di Londra. E' il 1923. Laura Browne legge: La signora Dalloway disse che avrebbe comprato lei i fiori. E' Los Angeles. E' il 1949. "E' il nuovo mondo, il mondo salvato dalla guerra non c'è molto spazio per l'inattività". Ma Laura ha ancora voglia di stare a letto, a leggere: "E poi, pensò Clarissa Dalloway, che bella mattina, fresca come se fosse pensata per dei bambini su una spiaggia". Clarissa Vaughan dice: penso che andrò io a comprare i fiori. E' la citta di New York. E' la fine del ventesimo secolo: "Una mattina di giugno così bella e pulita che Clarissa sosta sulla soglia come farebbe sul bordo di una piscina, a guardare l'acqua turchese che batte contro le piastrelle, le strisce liquide di sole che guizzano nelle profondità blu".   Comincia così "The Hours", il film di Stephen Daldry (Billy Elliot), scritto da David Hare e tratto dallo strabiliante romanzo di Michael Cunnigham, Premio Pulitzer nel '99. Tre donne di epoche diverse, legate dal romanzo "Mrs Dalloway", raccontate nell'arco di una giornata fatta di frammenti, di momenti, di ore. Una giornata banale, si direbbe: ci sono dei fiori da comprare e una festa da organizzare. Virginia deve preparare un tè per sua sorella Vanessa. Laura deve fare una torta per il compleanno del marito. Clarissa deve organizzare un cocktail per il suo antico amore Richard, affermato poeta consumato dall'Aids.   Ma quella che sembrava una giornata ordinaria, ora dopo ora, si squarcia in momenti rivelatori. Baci innominabili, lampi di coscienza, tè allo zenzero, fitte di dolore, torte che si afflosciano, gambi di fiori recisi, propositi suicidi, pasticci di granchio, ricordi di estati passate in cui sembrava potesse accadere qualsiasi cosa. Le ore che scandiscono la giornata, vivide e insignificanti, portano le tre protagoniste a "guardare in faccia la vita, conoscerla, e poi metterla da parte".   Laura si accorge che quella felicità casalinga, solare e zuccherosa come il cielo di Los Angeles, non è quello che ha sempre sognato. E' una donna incinta, a disagio di fronte all'adorazione del suo figlio piccolo, con un marito, miracolosamente reduce dalla guerra, che è così sano nella sua dedizione per il lavoro, per la vita, da risultare insopportabile. Forse non era questo, quello che desiderava Laura. Prova un'inquietudine strana, confusa e disperata ma al contempo calma. Esce, va alla ricerca di una stanza tutta per sé. Dove poter leggere, dove poter pensare alla morte, o a un'altra vita.   Clarissa pensa che tutto andrà male. Che alla sua festa Richard non verrà, che sarà un disastro. Si vede come "una vecchia signora che si affanna intorno alle sue rose". Si vede dall'esterno, come se si stesse spiando dalle finestre del suo appartamento da donna affermata, le pareti tappezzate di colori chiari e stampe botaniche: è molto meno di quanto avrebbe potuto essere, pensa.   Virginia Woolf pensa che le voci stanno tornando e che il mal di testa si avvicina. Il suo equilibrio mentale ha bisogna di cura e tutela, per questo è costretta a vivere a Richmond, squallido sobborgo che disprezza: perché la frenesia di Londra feste, artisti, pulsazioni - è per lei deleteria. Ma lei non ce la fa più di tutta quella quiete, e organizza una fuga clandestina. Pensa di aver fallito. Non è una scrittrice, non veramente: è solo una stravagante dotata, si ripete.   Tormenti e riflessioni che vanno avanti fino alla fine della giornata, quando qualcuno morirà, come pensa Virginia Woolf: "Qualcuno morirà perché gli altri imparino ad amare la vita." Amare la vita e i momenti che ci regala, perché, come si legge nel romanzo di Cunnigham, "c'è solo questo come consolazione: un'ora qui o lì, quando le nostre vite sembrano, contro ogni probabilità e aspettativa, aprirsi completamente e darci tutto quello che abbiamo immaginato".
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