“Lavorare per la sete di posterità è altrettanto volgare che lavorare per la sete di denaro”. Così Orson Welles liquidava la preoccupazione di impressionare il tempo e la memoria collettiva con la sua opera. Eppure sono pochi quelli che come lui hanno presentato la prova del proprio genio artistico all’ardua sentenza, ottenendo consenso unanime. E a proposito di genio, lo stesso Welles amava ironizzare con cinismo dichiarando che quella parola fu sussurrata al suo orecchio quando ancora piangeva in culla, e questa era la ragione per cui non gli fosse mai venuto in mente di dubitarne fino alla mezza età.
Un capolavoro non nasce infondo da chi, dotato di talento, libera anche la propria inclinazione alla megalomania?
Se il capolavoro in più si chiama “Quarto Potere”, che beva quanto vuole e dica un po’ ciò che gli pare questo Welles. Più o meno fu simile il pensiero che attraversò i rappresentati dell’industria cinematografica, riuniti per preventivare la furia mediatica del magnate Hearst cui era diretto il ritratto poco lusinghiero del Citizen Kane, quando, per lo sconcerto e l’ammirazione lasciarono morire ogni ipotesi di censura.
Welles aveva all’epoca 26 anni e un radioso passato di enfant prodige alle spalle. Cresciuto in un ambiente colto e originale, da piccolo manifestò un talento per la musica e amava molto anche la magia, la pittura e il teatro. Recitò in una compagnia irlandese, e al ritorno in America conquistò la scena newyorchese con espressive rielaborazioni di classici. La fantasia e il carisma di questo giovane convinsero la CBS a contrattarlo per rilanciare il radiodramma. Cominciò così la curiosa avventura che lo condusse a riadattare “La guerra dei mondi”. Quello che accadde è ormai storia: Welles inscenò una descrizione dello sbarco dei marziani a New York in forma di cronaca e la concluse simulando la propria morte davanti al microfono. La sua performance fu talmente realistica da scatenare una reazione isterica degli ascoltatori, e la bravata per poco non gli costò una denuncia. Quel giorno però Welles spiegò al mondo le potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa e tradì la propria vocazione al Fake, all’illusione, all’ipnosi, al gioco di specchi e al gusto barocco che distinsero successivamente anche il suo modo di intendere il cinema.
Già perché è così che arrivò il cinema. Il terremoto scatenato dall’invasione aliena conquistò la RKO che si precipitò a reclutarlo offrendogli mari, monti e tutta la libertà creativa che voleva. “Per quello che abbiamo fatto sarei dovuto finire in galera, ma al contrario, sono finito a Hollywood”, raccontava divertito lui.
Hollywood e la promessa di autonomia però si trasformarono in una croce, e il futuro del giovane Welles non fu radioso quanto il passato, accarezzò anzi lo spettro del fallimento per le ingerenze produttive molto pesanti che i suoi film scontarono.
Il secondo lungometraggio, “L’orgoglio degli Amberson”, fu bloccato, rimontato, tagliato e gli fu cambiato il finale all’insaputa di Welles che era in Sud America per conto del governo a girare “It’s All True”, che invece rimase incompiuto. Per qualche anno il regista si limitò a recitare e a lavorare in radio. Intanto però sposò Rita Hayworth, la donna più desiderata del mondo. Il ritorno alla regia avvenne con “Lo straniero”, seguito da “La signora di Shangai” e “Macbeth” che chiuse la prima fase della sua carriera hollywoodiana e spinse il regista ad emigrare in Europa, dove per mantenersi e finanziare i propri lavori continuò a recitare. Come dimenticare “Il terzo uomo”? Tra mille difficoltà molto rappresentative del suo accidentato percorso artistico, Welles riuscì comunque a girare “Otello” che gli valse la Palma d’Oro a Cannes, e poi quel “Rapporto confidenziale” che spingeva alle origini in direzione di “Quarto Potere”.
Nel 1958, l’America, nell’etichetta della Universal Pictures, lo richiamò a casa per dirigere e interpretare “L’infernale Quinlan”; un film di modeste intenzioni che lui trasformò in una pagina monumentale portando in scena, oltre la stazza ormai importante, il dolore, la stanchezza, la disillusione che probabilmente covava. Anche in questo caso l’ultima parola sul montaggio gli fu negata e la cosa lo disgustò tanto che nel 1970 rifiutò di presentarsi alla cerimonia degli Oscar per ritirare il premio alla carriera. Artisticamente rispose alle offese subite dagli studios con “Falstaff”, di cui oltre alla regia curò la più incredibile delle sue interpretazioni. Si riconosceva molto in quel tragico cialtrone rinnegato.
L’ultimo lavoro compiuto fu il falso documentario “F come Falso”.
Il 9 ottobre 1985 Welles registrò una puntata per la tv del “Mery Griffin Show”: si esibì in un gioco di prestigio. Fu la sua ultima grande illusione prima di levarsi il mantello. Il giorno dopo si accasciò sulla sua macchina da scrivere.
Da quel giorno sono passati 25 anni e a dispetto di tutte le sue divertenti eresie sull’argomento, i posteri lo hanno eletto una delle più grandi menti della settima arte.
NOTIZIE
Quel diavolo di Orson
Un omaggio al genio assoluto di Welles a 25 anni dalla sua scomparsa.
09.10.2010 - Autore: Ludovica Sanfelice