
In uscita il 5 gennaio per Warner Bros. (che ha prodotto e distribuirà il film in 650 copie) Verdone esordisce ringraziando i giornalisti presenti con le sue solite battute: “Se Avatar fosse uscito nella data prestabilita, dato che con Gabriele Muccino avevamo stipulato un patto di non belligeranza non vi avrei fatto lavorare il 30 dicembre”. Come abbiamo detto il film è dedicato al padre di Verdone, Mario, grandissimo critico e storico del cinema scomparso durante la realizzazione del film, e il regista ci dice immediatamente: “Ogni volta che andavo a trovare papà all’ospedale mi diceva: ‘Non venire più, vai via, se no lo sbagli questo film e io non voglio’. Era ovvio che la pellicola la dedicassi a lui e alla immensa generosità che ha dimostrato fino alla fine”.

Verdone da dove nasce l’esigenza di raccontare questa storia?
Nasce proprio da una esigenza, da una necessità. Volevo interpretare un prete serio, uno di quelli che lavorano nelle periferie, o in Paesi stranieri e che non parlano da un pulpito. Tantomeno una macchietta come avevo già fatto in altri miei film. Ma, soprattutto, volevo narrare le vicende di un uomo perbène, in crisi con la fede, che si ritrova a che fare con un occidente completamente dissestato. Tra i tanti temi che ci sono in questo film, quello dell’intolleranza verso gli stranieri è uno dei più forti, e devo dire – con grande dispiacere – che l’Italia è un Paese diffidente, per usare un eufemismo, verso questo argomento. Direi razzista, mi fermo a diffidente e intollerante. E’ un Paese che non ha le strutture di accoglienza che funzionano ed è una nazione divisa. E questo è un male.
Nel film si ride davvero molto ma sono evidenti le meschinità, l’arroganza, l’assoluta mancanza di capacità di ascolto che ci rappresentano. Ci siamo ridotti così?
Purtroppo sì. Etica per me è al momento una parola di avanguardia perché viviamo un momento dove non solo abbiamo perso ogni morale ma anche il senso di civiltà. Quindi mi premeva mettere in scena una persona onesta, coerente, come è Don Carlo, e la scelta che sia un sacerdote non è dovuta a motivi religiosi o bacchettoni ma, al contrario, è una sfida. Perché lui è in crisi nera con la sua scelta ed è interessante che rimanga il personaggio migliore della storia, quello che alla fine riesce con la sua caparbietà e le sue convinzioni a riuscire a fare accettare, ai componenti della sua famiglia e non solo a loro, gli altri. Conosco tante persone così e anche tanti sacerdoti così, preti che dopo due minuti che gli parli, ti dimentichi che vestono un abito talare perché sono uomini normali come tutti noi.

Verdone quest’anno ha festeggiato trent’anni di carriera. Com’è andata?
Un miracolo. Ancora oggi mi meraviglio di quello che mi è successo. Credo di avere avuto molto dalla vita. E da ora in poi voglio fare film di questo tipo, anche più coraggiosi. Sempre corali, perché voglio dare molto spazio ai giovani, e sempre da pedinatore degli italiani quale io mi sento.
Che cosa si augura per il prossimo anno?
Che la gente ritrovi il buonsenso nelle cose. Basta tensioni. L’Italia deve cambiare e smetterla di essere una grande violenta riunione condominiale. Vorrei una nuova generazione in grado di cambiare le cose. Un ricambio con giovani preparati e quindi una società meritocratica. Non sarà facile ma, io nel mio piccolo, ce la metterò tutta. Non voglio morire di solo cinema, dopo trent’anni di carriera, voglio recitare accanto agli attori che mi piacciono e raccontare solamente le storie che mi stanno a cuore.

Una definizione di Carlo Verdone da parte del cast?
Anna Bonaiuto: “Ho recitato di fianco ad un attore vero. Inoltre Verdone per me è l’unico capace di sollevare la comicità romana – che è spesso greve – e farla diventare lieve”.
Angela Finocchiaro: “Carlo è un uomo che si preoccupa delle persone, non solo dei suoi attori. E questo è un pregio raro”.
Laura Chiatti: “Carlo è quello che vedi nei film. Non ti delude mai ed è un gran gentiluomo”.
Marco Giallini: “Per me è sempre stato un mito e ora è un fratello”.
Per saperne di più
Il trailer del film
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