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Da Zero a Dieci

Da Zero a Dieci

da zero a dieci

14.04.2003 - Autore: Ludovica Rampoldi
Un film di Luciano Ligabue Con Stefano Pesce, Massimo Bellinzoni, Pierfrancesco Favino, Stefano Venturi Italia, 2002     Dopo Radiofreccia aveva giurato che non lavrebbe più fatto, ma la necessità di raccontare una nuova storia, e lentusiasmo pressante del produttore Domenico Procacci, ha riportato Ligabue nuovamente sul set. Nasce così Da Zero a Dieci, seconda fatica cinematografica della rock star di Correggio. Un film dal forte contrappunto musicale, con una intensa colonna sonora che mescola classici del rock a pezzi sconosciuti, ovviamente molto blues ma nella sua versione meno popolare, la disco anni 70, il pop, Van Morrison e John Hyatt.   I protagonisti sono quasi-quarantenni dalle vite ordinarie, Giove, Libero, Biccio (Pierfrancesco Favino, davvero molto bravo) e Baygon, che abbandonano Correggio, opulento e sonnacchioso paesino emiliano, per un weekend che li riporti indietro negli anni. La loro meta è la sfavillante Rimini, grande giocattolo della Riviera dove i quattro protagonisti hanno lasciato un conto in sospeso: ventanni prima, nellestate dell80, la loro gita fuori porta era stata bruscamente interrotta. Ora decidono di vivere quellavventura fino in fondo, anche a costo di sembrare fuori tempo massimo. Così si ritrovano con le amiche di un tempo, organizzano feste di non-compleanno per soddisfare i sogni sopiti di tutti, e anziché annoiarsi lun latro con i racconti della propria vita, decidono di riassumere i ventanni di silenzio con un voto: da zero a dieci.   Dopo i trentenni di Muccino, ecco i quarantenni di Ligabue. Anche se Da Zero a Dieci non vuole essere un film generazionale (mi fa senso il termine generazione) i protagonisti testimoniano un disagio comune, anche nella non appartenenza a nessun contenitore o fetta di mercato: la generazione che è sfuggita ai sondaggi e a Bill Gates, che ha visto i sogni cadere e le illusioni diventare amarezza. Nella nostalgia generale che pervade il film cè tutta langoscia del tempo che passa tra le mani senza lasciare traccia, il terrore di attraversare la vita e di passare inosservati. Per questo i protagonisti regrediscono fino alla corse in risciò, alle corse nudi per le strade, tornando indietro di ventanni nel tentativo disperato di portare indietro il tempo e di chiudere il cerchio.   Quando lamarezza sembra sul punto di trionfare, e si prende coscienza che ciò che è perduto non ritornerà, ecco che invece riaffiora la speranza, e per una vita che muore cè un figlio che viene concepito. Come nelle sue canzoni, Ligabue seziona al microscopio delle storie sottili e marginali, aprendo varchi profondi ed universali: ci parla di ansie esistenziali, di nostalgie vaghe ma dolorose, di disagi che appartengono a tutti. Ci pone domande inquietanti ma risponde con una pacca sulla spalla. In modo onesto però, con la saggezza consolatoria delle città di provincia, quella del finché cè vita cè speranza. Perciò non suona né falso né fastidioso il finale sereno che appiana i conflitti, in cui uno dei personaggi può tranquillamente dire: Ho 35 anni. Vuol dire che me ne spettano altrettanti altrettanto entusiasmanti.      
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