A questo punto della conferenza, un giornalista provoca Placido con una domanda che suona più come un'accusa: in un momento storico come questo, era davvero necessario fare un film su un criminale, presentandolo quasi come un eroe? Il regista, come si sa, è noto per il suo carattere irascibile, e noi volevamo vederlo con il sangue alla testa. E invece si contiene e risponde a tono, esponendo con chiarezza la tesi che sta sotto all'intero film: “Renato Vallanzasca è un mito creato principalmente dalla stampa, che cerca sempre di sbattere il mostro in prima pagina. Lui davvero ha questa leggerezza, da cui si finisce sedotti. Allo stesso tempo, però, era un criminale. E' lì che sta il mistero, ed è lì che sta il film”.
Placido pone molto l'accento sull'etica criminale di Vallanzasca: “Renato è nato criminale, lo dice e non lo nasconde. Ma ha una sua etica, poco comprensibile a quella di noi persone per bene. Ad esempio, si è assunto con coraggio la responsabilità di tutti i delitti commessi dalla sua banda. Inoltre, non ha mai sparato su persone inermi e alla fine non si è neppure arricchito. Certo, ha commesso dai ventiquattro ai ventotto crimini nella sua carriera, l'ultimo dei quali me lo ha confessato poco prima delle riprese. Mi ha rivelato di aver ucciso un pentito, ma per lui era un dovere. Questa è la sua etica: non avere a che fare con mafia, attentati e vittime innocenti”. E conclude: “ Vallanzasca non va perdonato, ma va compreso. Sua moglie sta facendo un viaggio dolorosissimo per portare il marito fuori dal carcere. In qualsiasi altro paese, dopo quarant'anni di detenzione lui sarebbe fuori, a maggior ragione in un paese cattolico come l'Italia”.
L'impressione, dunque, è che Placido non le mandi a dire. Ma d'altra parte un film così richiede l'audacia di saperne parlare senza falsi moralismi. Noi ci sentiamo di promuoverlo per la capacità dimostrata di difendere la sua tesi fino in fondo.
La vignetta di Marco Triolo: "Non fate arrabbiare Michele Placido"
