
Quel Barney se n’è andato insieme a Mordecai Richler qualche anno fa, ma l’idea di farlo rivivere sul grande schermo non è mai stata sepolta e per dieci anni è stata inseguita con testardaggine. L’ostacolo più evidente veniva proprio dal testo, dalla logorrea anarchica e disordinata del suo protagonista, dalla difficoltà di tradurre quella foga in un film che non tradisse la potenza della follia. Lo stesso Richler aveva aperto le danze finché la malattia non lo ha fermato, dopo di lui altri tre sceneggiatori si sono avventurati nelle ortiche: eppure niente. Infine è arrivato Michael Konyves e ha riordinato le cose sintetizzandole in un registro che filtra gli abomini di Barney, smorza gli sproloqui e si concentra sulla sua anima canaglia per amore, rispettando l’organizzazione del racconto nella linea dei tre matrimoni di Barney, e scansando il confronto diretto con il Super-Io che dominava la pagina scritta attraverso l’elegante rinuncia alla voce fuori campo. Il motore sullo schermo volge al sentimentale, che era infondo anche l’essenza di Barney se non l’avesse lordata di smargiassate.

La sceneggiatura trova così equilibrio in una versione soft della “Versione” e sfugge al ritmo sincopato e svagato dell’originale per rifugiarsi in una scorrevolezza limpida e inquadrata in ottimi dialoghi, e sostenuta da un cast che punta soprattutto su due cavalli di razza come Paul Giamatti e Dustin Hoffman nei panni bellissimi del padre. La parte che nel libro era ambientata a Parigi si sposta a Roma e questo è il passo più falso dell’intera operazione perché purtroppo la visione che gli americani hanno dell’Italia si annacqua sempre in luci eternamente calde e folklori da cartolina.

Nel complesso comunque il film riesce a stupire, divertire e immalinconire e si qualifica come un prodotto ben riuscito e perfettamente interpretato. Quel vecchio alcolizzato e sputasentenze di Barney però viene messo decisamente al guinzaglio.
"La versione di Barney" è distribuito nei cinema da Fandango
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