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Sin City

Un bianco iridescente contrasta il nero tenebroso. Occasionali e sorprendenti sprazzi di colore. Schizzi di sangue rosso, giallo, bianco. Sangue che scorre a galloni. Il risultato è molto più di un semplice film

Sin City

12.04.2007 - Autore: Claudio Moretti
La città è il tentativo dell’uomo di imitare Dio. E ogni città deve nascere da un rituale di sangue – l’antica Roma di Romolo e Remo, come le Gangs of New York. Sin City è rimasta intrappolata in quella fase primordiale di sangue fratricida. E non ne è mai uscita. Nel mondo da incubo di Sin City, un posto così corrotto che la persona più ingenua è una spogliarellista, non ci sono cittadini, ma solo eroi romantici e spari resi sospiri dai silenziatori.

Una Mary Shelton in bianco e nero, tranne per il denso rossetto e l’abito rosso sangue, si affaccia su una terrazza illuminata dalla luna. Raggiunge Josh Hartnett. Lui gli accende la sigaretta, i suoi occhi lampeggiano di un verde brillante.

Siamo già dentro alla rivoluzione espressiva con cui Robert Rodriguez prova a trasferire il cinema nella graphic novel di Frank Miller, non il contrario. (“Graphic novel” è il genere inventato per riabilitare culturalmente i comic book, i fumetti). Non si tratta quindi di un adattamento, bensì di una traduzione visiva. Un bianco iridescente contrasta il nero tenebroso. Occasionali e sorprendenti sprazzi di colore. Schizzi di sangue rosso, giallo, bianco. Sangue che scorre a galloni. Facilmente il tentativo più riuscito di portare un fumetto sul grande schermo. Il risultato è molto più di un semplice film. Un’esperienza di cinema completamente nuova. Il film balza giù dal grande schermo per l’audacia della messa in scena. Per la tavolozza del tutto nuova da cui Rodriguez attinge.

Le tre storie

Nella prima storia – That Yellow Bastard - Bruce Willis, un poliziotto alla sua ultima notte di lavoro, rischia la vita per salvare una ragazzina di 11 anni di nome Nancy da un pedofilo psicotico. Sette anni dopo la bambina sarà Jessica Alba in un minuscolo costume da cow-girl e il pedofilo si sarà reincarnato in “That Yellow Bastard”.

Nella seconda storia - The Hard Goodbye - Marv (Mickey Rourke) è un bruto dalle fattezze bestiali. Un vendicatore free-lance. Trascorre una notte con una donna che gli spezza il cuore, ma al risveglio la scopre brutalmente uccisa. Inizia una cupa caccia alla vendetta finendo sulle tracce di un cannibale (Elijah Wood).

Nella terza storia - The Big Fat Kill - Clive Owen è un investigatore privato che si lancia alla caccia dell’uomo (Benicio Del Toro) che molesta la sua donna (Brittany Murphy). Si ritrova in mezzo a una guerra tra un gruppo di prostitute capeggiate da Rosario Dawson e la polizia.  

La traduzione troppo letterale

La struttura narrativa prova a incastrare tre episodi senza riuscirci granchè. Il merito di una traduzione fedele del fumetto finisce per legare le mani a Rodriguez. Non ha utilizzato una sceneggiatura, ma semplicemente trascritto i libri. Il problema è quello della traduzione letterale, quasi mai la più leale. Per restare il più possibile vicini all’originale, utilizzando un mezzo espressivo diverso, era forse necessario cambiare qualcosa in più. Lo “stile storyboard” (si potrebbe mettere in pausa il film in diversi momenti e sembrerebbe esattamente come un fumetto) al cinema sembra un po’ troppo statico. Esaurita la sorpresa iniziale per la bellezza visiva della soluzione creata da Rodriguez, da vero artista dell’immagine, il film rischia di annoiare.

La prova scultorea di Mickey Rourke

C’è però un cast stellare: Bruce Willis, Benecio Del Toro, Rosario Dawson, Jessica Alba, Clive Owen. Ma soprattutto Mickey Rourke che scivola dentro al personaggio di Marv dando spettacolo. Un collage di cerotti su una faccia grottescamente spaventosa. L’impermeabile in pelle nera: cammina dondolando le spalle per farlo fluttuare nell’aria. Sembra un blocco di granito abbandonato a lavoro appena iniziato da uno scultore. Con i suoi muscoli traina tutta la prima parte del film. Quando Marv esce di scena solo una cosa non poteva farlo rimpiangere: i titoli di coda.

Il tributo al Noir classico

Il bianco e nero del noir, il classico “camera car” anni ’40 con l’attore incorniciato dall’enorme volante. La voce narrante dilagante. Il flusso di pensiero dell’attore tipico dell’hard boiled. Da un momento all’altro pare debba saltar fuori Humphrey Bogart e dire: “Ehi bambola, sono in piedi, non puoi sederti sulle mie ginocchia”. Questa manca, ma verranno comunque dette: “Scusa, piccola”. Oppure: “Ti amerò per sempre, baby”.