Non e' casuale che il film nel quale Richard Gere ha voluto investire tanto - a livello personale, piu' che economico - abbia lo stesso titolo di un album molto importante per un certo Bob Dylan, soprattutto a scorrerne la 'track list'. Love Sick (amore malato), Dirt Road Blues (il blues della strada sporca), Million Miles (milioni di miglia), Tryin' to Get to Heaven (cercando di arrivare in Paradiso) sembrano tappe del percorso del George protagonista di Time Out of Mind, film presentato al Festival di Toronto, passato a quello di New York (dove lo abbiamo visto) e oggi in programma in quel di Roma.
L'ex American Gigolo', infatti, oggi e' uno dei tanti homeless di New York perso in una Odissea senza fine. Un viaggio tra i propri rimorsi, nel tentativo di mantenere viva una flebile o allucinanta speranza di umanita', di futuro …e di passato. A muoverlo la figlia, evidentemente trascurata e ormai indipendente e lontana, figura a lungo assente ma utile a portarci attraverso il lungo percorso del film. E attraverso tutto il sistema di rifugi e aiuti ai senzatetto della citta' di New York - a partire dal locale Bellevue Hospital, uno dei principali - argomento che sempre piu' spesso appare nel cinema d'Oltreoceano (e sempre con difficolta') e che sembra aver avvinto Gere da molti anni, viste le radici antiche del suo progetto produttivo.
Il doppio sguardo del film - dall'interno, con la rappesentazione anche della rete di relazioni che si stabiliscono tra disperati quasi a formare una societa' parallela, e dall'esterno, ovviando alla tendenza a volgere altrove la propria attenzione - supplisce a delle carenze evidenti del film diretto da Oren Moverman (The Messenger, Rampart), forse troppo attento nei confronti di Gere al punto da seguirlo invece di dirigerlo. La distanza tra osservatore e osservato varia, in maniera interessante, ma con meno controllo di quanto sarebbe stato utile. Il risultato e' un'affresco educativo, ma forse dallo scavo relativo. E l'empatia ricercata (o richiesta) sconta la stessa incostanza.
Intelligente la scelta di non fornire troppe informazioni sul protagonista, di lasciarlo nell'indefinito senza rivelarne vita e legami (se non quanto richiesto dalla drammatizzazione narrativa) in modo da renderlo ancora piu' anonimo, qualunque. Come monito in carne e ossa per i piu' 'distratti', un avvertimento anche aggressivo e minaccioso a superare quel distacco. A riflettere su quanto poco basti per diventare un'ombra in un tessuto del quale ancora si partecipa. Un'ombra alla quale Gere fornisce un corpo, ma soprattutto una interpretazione di immedesimazione e coinvolgimento encomiabili.
Come la sua intenzione originaria, a fronte della quale - oltre al grande studio e preparazione posti nella costruzione del film - la resa finale non riesce a tenere un tono e un ritmo completamente convincenti. Per quanto sia rivelatrice - ed emozionante, a suo modo - l'esperienza che ha reso 'invisibile' un attore famoso come il nostro Richard (a passeggio per ore per le strade piu' affollate della Grande Mela senza che quasi nessuno 'volesse riconoscerlo') sullo schermo e' proprio la sua presenza a rendere difficile l'abbandono alla storia e lo scindere personaggio e interprete, con indubbi problemi di credibilita' generale.
Time Out of Mind resta uno spaccato di una realta' sempre piu' diffusa, sulla quale New York ha sicuramente molto da insegnare a tanti, che fatica a farsi cinema. Nonostante momenti di tensione e alcuni forse piu' validi dal punto di vista didattico che altro. Meglio quando opta per la sospensione… del giudizio, del racconto, dei suggerimenti. Come nel finale, pur conciliante, interrotto prima che sia troppo tardi.
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15.10.2014 - Autore: Mattia Pasquini